3/2/2014
Il corvo è servito
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Il corvo è servito
di Nicola Dal Falco
Scrivere un libro che racconti una nuova avventura di Corto Maltese non è facile, perché significa sfidare la potenza delle immagini, le quali, rarissimamente, arretrano di fronte alle parole.
Il corvo di pietra, scritto da Marco Steiner, amico e collaboratore di Hugo Pratt, pubblicato da Sellerio, accetta, invece, questo spericolato cabotaggio, tessendo una trama siciliana in cui un giovanissimo eroe affronta quasi per gioco, da predestinato, il repertorio di situazioni a cui ci ha abituato il suo creatore.
Come in tutte le vicende di Corto, l’avventura non è mai fine a se stessa e ha in palio, qualunque sia il movente dei personaggi coinvolti, un tesoro, piccolo o grande, di conoscenze fuori dal comune, sapienziali.
La sapienza, infatti, pur attingendo all’erudizione, non punta a spiegare, ma a indirizzare, trasformando le scoperte in un lievito di vita, in scelte personali, in destino.
Il libro include un elenco di topoi, consacrati e riconsacrati dalla letteratura di genere: una costa selvaggia e piovosa dove imbarcare merce di contrabbando e fucili per i ribelli; una statua, il corvo di pietra del titolo, che custodisce come un secretaire la pergamena con la metà di una mappa in forma di enigma; un rabbino, maestro di cabala; simboli universali come il triskell, immagine della Trinacria e la chimera; una setta formata da persone di varia umanità e moralità in cui si mescolano riti sincretisti e pura avidità.
E ancora: una profezia che ha il compito di riunire tre sconosciuti; il passato perduto in cui le sorti di un’isola si intrecciarono con quelle di una famiglia; un disertore per buona causa, implacabile con il coltello; la libreria in cui si entra dalla porta, ma si può uscire da una parete mobile; la grotta, custodita da creature ctonie, repellenti, fornita anch’essa di una parete a scomparsa; un vago senso di claustrofobia ben interpretato dall’elemento acqua che può salvare, alzando per tempo le vele o far fare la fine dei sorci…
Gli esempi potrebbero continuare, ma sarebbe ingiusto anticipare tutte le sorprese e le conferme del caso, destinate ad alimentarne l’epos.
La cucina affabulante
La sfida tra parole e immagini, tra un nuovo racconto e l’icona benedicente e viaggiante di Corto Maltese potevano condurre ad una sorta di pareggio, senza vinti né vincitori, se l’autore non avesse avuto l’idea di inserire nel suo viaggio siciliano alcune ricette.
C’è una battuta nel libro che invita a riunire le cose separate e che nella sua semplicità potrebbe diventare il motto di ogni cuoco.
Una battuta non priva di implicazioni esoteriche a cui si aggiungono importanti riferimenti all’alchimia. La tesi espressa è quella di un’arte che avrebbe funzionato soprattutto come metafora della trasformazione dell’uomo. L’oro desiderato equivarrebbe allo spirito che riesce attraverso una ricerca disciplinata a liberarsi dalla materia, dal piombo delle convenzioni e delle passioni.
Nel frattempo, la possibilità di inciampare nella scoperta dell’elisir di lunga vita resta sempre sullo sfondo.
E la regola aurea di Ippocrate secondo cui l’alimento è salute conduce a credere che una buona cucina possa facilmente diventare un elisir di durata.
L’avventura degli ingredienti e delle forme commestibili
Alchimia e cucina si trovano riunite nel personaggio di Chiaromonte, erede di una nobile e sfortunata schiatta isolana che avrebbe potuto riscattare la Sicilia dal gioco straniero.
Per la legge dei contrasti, sotto l’allampanata, sofisticata figura dell’iniziato e del cultore di ricette si cela per ammissione dello stesso Steiner la storia culinaria di un cuoco reale: Ciccio Sultano.
E per pura partigianeria, per amicizia e per simpatia verso Sultano, si potrebbe addirittura fantasticare che il libro sul giovane Corto Maltese sia piuttosto un omaggio viscerale alla Sicilia o un inchino costruito capitolo per capitolo, digressione per digressione, al cuoco di Ragusa Ibla.
Credo, invece, che la presenza di queste strepitose ricette come delle osservazioni sul cibo, risponda ad un’esigenza estetica, ad una strategia letteraria.
Narrando di un personaggio dei fumetti, già presente alla mente dei lettori nei suoi tratti somatici e comportamentali, l’unica vera conquista dello stile e delle parole poteva essere affidata alla descrizione di sapori, profumi e cotture.
Un’avventura tutta da immaginare, sottile e inedita a seconda del palato che l’affronta, lasciandosi tentare.
Lì, nella presentazione degli spaghetti Taratatà, nella merenda del bracciante a base di pane, fico d’india, formaggio e un’alice, nella metafisica del capretto arrosto in cui verdeggia ancora il pascolo che lo ha nutrito – piatto rusticano, definito come in un menu futurista: verdure di campo in salsa caprina – o nella natura multietnica e poliglotta dell’arancino e del cannolo, la parola vola sopra l’immagine.
Anzi, potremmo affermare che nessuna foto di piatti eguagli il racconto di una ricetta a condizione che nel suo ingranaggio perfetto siano stati imprigionati il genio del luogo, le giravolte della storia e, quando appare, anche un po’ di divina provvidenza.
Nelle prime pagine del racconto, una frase di Melchisedec suona al tempo stesso come avvertimento e come consiglio: «ricordate sempre di conservare rispetto per il Mistero…»
Ecco, l’avventura della cucina in Sicilia, rievocata da Chiaromonte/Ciccio, fa correre la penna anche e soprattutto in assenza di immagini, perché nella sapienza di un boccone si conserva l’impronta della pietra filosofale.
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